Puglia: plastiche biodegradabili riciclabili dagli scarti dei caseifici “così non pagheremo più la tassa, indipendenti dalle multinazionali del petrolio”

Nei laboratori ENEA di Brindisi, ricercatori al lavoro per ricavare imballaggi biodegradabili dal siero di scarto dei caseifici. Il progetto finanziato dalla Regione Puglia permetterebbe presto di costruire plastiche riciclabili prodotte dagli scarti dei caseifici. Una tecnica innovativa che consentirebbe di evitare di riempire le discariche di plastica inutilizzabile ed inquinante e dall’altra parte spingendo i produttori di formaggi a riciclare gli scarti evitando di pagare l’attuale tassa. Un’ottima soluzione, dunque, che contribuirebbe non poco in un sol colpo all’economia circolare locale che parte dalla produzione di latticini e termina alla produzione di plastica riutilizzabile. Al progetto, condotto presso la sede ENEA di Brindisi, aderiscono anche l’Università di Bari ed il Cnr.

La tecnica consiste nell’introdurre gli scarti caseari tramite impianti di nanofiltrazione viene estratto il lattosio per produrre un insolito “petrolio” che verrà utilizzato per la produzione di oggetti di plastica. Una rivoluzione se pensiamo che al momento per produrre plastica, noi italiani dobbiamo avvalerci di multinazionali del petrolio che, dagli Stati Uniti o dalla Cina, ci forniscono di plastica, a volte nemmeno tanto di qualità. Elementi estremamente dannosi per l’ambiente e quindi per la salute che, purtroppo anche a causa delle cattive abitudini, ritroviamo troppo spesso nelle campagne e nelle acque del mare.

Plastiche che, nel caso degli oceani e dei mari, tendono a ridursi in piccoli pezzettini, a volte minuscoli, che vengono scambiati poi per cibo da pesci, uccelli ed altre creature marine. Il risultato è spaventoso: animali che a volte finiscono anche nelle nostre tavole, vissuti con l’assunzione di plastica che porta alla morte. Occorre dunque un cambio di rotta in grado di contribuire sia alla salvaguarda ambientale che all’autosufficienza nazionale attraverso proprio tecniche come queste, ovvero in grado di sfruttare un rifiuto trasformandolo in una risorsa capace di sostituirne un’altra che altrimenti non potremmo produrre. Video del Tgr:

 

Una tecnica che ricorda vagamente il periodo autarchico dell’Italia, quello precedente alla Seconda Guerra Mondiale, dove proprio a causa delle sanzioni ai danni della nostra economica, il Regno d’Italia promosse una tecnica di autoproduzione di lana attraverso l’utilizzo del latte. Produrre lana dal latte? E’ possibile. Anzi, è cosa piuttosto nota da almeno 60 anni se non di più. Con il nome di Lanital, infatti, tra il 1937 e la fine della seconda guerra mondiale, fu commercializzata una fibra autarchica tratta dalla caseina, la proteina del latte.  Nel 1937 le parole libere del fondatore del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti, diedero vita al “Poema del vestito da latte”: pubblicato da Munari all’interno di un libretto illustrato, il poema corto fu respinto dalla necessità di pubblicizzare Lanital , un tessuto autosufficiente basato sulla caseina che doveva sostituire la lana.

L’industrializzazione era opera della SNIA Viscosa, che dava applicazione a una scoperta del 1935, ad opera dell’italiano Antonio Ferretti. In piena epoca di sanzioni economiche, dopo la guerra d’Etiopia, il regime fascista diede grande risonanza al prodotto con un’opera di propaganda sull’autosufficienza dell’Italia. Nel frattempo, negli Stati Uniti, la Atlantic Research Associates Inc. produsse una fibra simile. La Lanital viene classificata come una fibra proteica ed ha una struttura molecolare molto simile alla lana, con risultati vicini anche per calore, morbidezza e mano tessile. Presenta anche il vantaggio di essere poco attaccabile dalle tarme. È tuttavia poco resistente all’usura.

Nel dopoguerra la SNIA tentò di migliorare il prodotto e di rilanciarlo con il nome commerciale di Merinova, ma nel frattempo lo sviluppo delle fibre chimiche, in primo luogo dell’acrilico, fece uscire dal mercato le fibre caseiniche. Un video diffuso dall’Istituto Luce documenta questa tecnica nel periodo fascista:

Negli anni 2000, invece, questo materiale è stato riscoperto soprattutto per le sue qualità anallergiche, per la fabbricazione di prodotti per primissima infanzia o per chi ha forme di intolleranza per la lana e per le fibre sintetiche. Indumenti e filati per aguglieria in “fibra di latte” (normalmente in mescola con lana merino o lana merino e cashmere) sono attualmente prodotti con un certo successo da diverse aziende, occupando la fascia alta del mercato.

In tempi più recenti, dopo due anni di sperimentazione, l’imprenditrice Anke Domaske è riuscita nell’intento. Il Qmilk è prodotto a partire da scarti industriali. Nella sola Germania, ogni anno, vengono buttati circa 2 milioni di tonnellate di latte. Proprio questa grande quantità di alimento andata a male e, dunque, non adatta al consumo umano diventa il punto di partenza per il tessuto. Nella produzione, c’è un basso livello di composti chimici dannosi. Inoltre, la nuova fibra consente un notevole risparmio idrico. Occorrono meno di due litri d’acqua per realizzare un chilo di Qmilk, mentre ne servono più di 10 mila per ottenere la stessa quantità di cotone.

Un campo in rapida crescita che apre la  strada a giovani intellettuali – come la siciliana  Adriana Santonocito che, attraverso un processo di ricerca e sviluppo condotto in collaborazione con il Politecnico di Milano , ha trovato un processo per ottenere cellulosa dalle arance destinate allo spreco nel trituratore .